Testo Critico di GIOVANNI FACCENDA – Mostra Personale LONDRA 2011
«L’uomo in fondo ama quello che maggiormente gli ricorda queste visioni quasi subcoscienti, queste visioni che sono il suo mondo segreto, sconosciute agli altri e che nessuno può togliergli, perché questo mondo egli lo ha nel suo cervello».
Giorgio de Chirico, Paesaggi,«L’Illustrazione italiana», Milano, 24 maggio 1942.
Vi sono uomini i cui territori di escursione prediletti appartengono ad una natura immaginaria. Portati per temperamento verso il sogno (ad occhi aperti), a questo sovente si abbandonano per ritrovare appigli vitali, salutari quanto stimolanti. La realtà, per un simile, privilegiato genere di individui, è soltanto una rigida convenzione: un perimetro chiuso come le mura di un carcere dal quale indovinare ciò che c’è oltre.
Non conoscevo fino a poco tempo fa, per mia ignoranza, il lavoro di Francesco Visalli. Un’amica preziosa, sensibile e illuminata – Luana Baraccani –, mi ha offerto lo spunto per colmare questa criticabile lacuna: una serie di riproduzioni subito eloquenti della bontà di dipinti aventi, fra gli altri, un merito peculiare: quello di essere originali.
Pur diffidando, da sempre, delle impressioni ricavate da foto o moderni ausili digitali – la pittura esige altro tipo di contatto visivo, dal vero e diretto –, quei parziali riferimenti mi hanno immediatamente convinto ad approfondire la conoscenza dell’opera di Visalli, figura appartata e nobile in uno scenario contemporaneo dove brillano, purtroppo, altre e certo meno talentuose comparse.
Superato l’intrigante approccio epidermico, le tele, abilmente portate a compimento da un pittore al quale non difettano talune coraggiose arditezze espressive, mostrano luoghi che non sono luoghi e uomini che non sono uomini. Diresti, piuttosto, guardando con la necessaria profondità ad essi, che si tratta di dimensioni e di entità vive nella mente di un artista, la cui maggiore urgenza è trasferire le medesime in una prospettiva squisitamente allusiva. In quelle forme accentuate, estranee a qualunque connotazione geografica o fisiognomica, albergano invero illusioni e scorie che evocano una nascosta esistenza, presente e passata: quella di Visalli. La figurazione echeggia cavernosi fremiti personali, nell’affermarsi di un miraggio iconografico che appare perfino terapeutico: si manifesta nella ricchezza di simboli trasfigurati, di scene abitate da miti ed archetipi, di un’aura sopraggiunta per pacificare intime irrequietezze o risvegliare trasognati abbandoni.
Anche scorrendo rapidamente, con la memoria, l’ultimo secolo dell’arte, non è dato di incontrare alcuna fondata discendenza. Convergono, naturalmente, in una cifra creativa caratterizzata da un’evidente abilità immaginifica, i semi fecondi di una stagione surrealista meritoriamente visitata da Visalli nei giusti termini, senza, ovvero, quelle adesioni dolciastre, talvolta perfino simmetriche, che conducono al pericoloso precipizio dell’epigonato.
In questo senso, giova semmai segnalare qualche altra nobile relazione, più a ritroso nel tempo, in cui, sfumati quanto si vuole, si riverberano tuttavia riflessi di ordine quattrocentesco e trecentesco, che rimandano agli esempi, illustri, di Paolo Uccello e Piero della Francesca, prima, Duccio di Buoninsegna e Simone Martini, poi. Un esempio: L’alba di Madame Chisciotte – in modo, magari, del tutto inconsapevole – non racchiude, forse, una remota suggestione germinata dal Guidoriccio da Fogliano dell’impareggiabile Simone senese?
È un uomo colto, Visalli: ha viaggiato, vissuto e letto. Dalla somma delle sue esperienze, umane e spirituali, discende il solido sostrato filosofico che accende di una luce particolare ogni sua composizione. Pittore visionario, ama comunque arricchire ogni rappresentazione di un arcano sapore esistenziale, misto di fragranze distinte: l’aspro e il dolce vi si mescolano, dando luogo ad un continuo senso di straniamento che interviene in chi guarda, stupito ed affascinato, i suoi quadri. Restano e si riaffermano questi, peraltro, quali ambiti pittorici colmi di domande irrisolte e, parimenti, fatti accertati, come conviene a chi è portato, per indole, ad interrogarsi costantemente e a non risparmiarsi nulla nella ricerca, difficoltosa e sconfinata, di quanto costituisca verità ultima.
La mèta è questa. Dipingere, allora, significa indagare equilibri mentali instabili, rapporti umani precari, cosa rimanga nell’anima – e perché – come reminiscenza perennemente florida, capace di condizionare a tal punto, nel bene e nel male, il presente ed il futuro di un uomo. Da Diogene a Freud, passando per Nietzsche e Schopenhauer, varie e ricorrenti, dunque, sono le soste che costellano il vasto percorso intellettuale di Visalli.
Giorgio de Chirico, da giovane, ebbe a scrivere: «Siamo viaggiatori sempre pronti per nuove partenze». Ma Itaca, per Odisseo, è lontana, e al ritorno si frappongono ostacoli di ogni tipo. Li conosce, Visalli, e sa quali monti, mari, secche, tempeste e perigli occorre affrontare per riuscire soltanto ad immaginare il sole dietro la montagna. Vive di questa rigogliosa radice onirica, una pittura – la sua – entro cui rassodano, certo, tante cicatrici indelebili, ma anche il tepore di raggi che gli hanno dischiuso la soglia di quelli che sarebbero stati i suoi nuovi giorni.
Mi è caro infine pensare, vorticando con la fantasia, per quanto invitano, seducenti, a fare quelle sue antropomorfe entità – così le ho prima definite –, che egli abbia finalmente trovato la propria dimora elettiva in un’ideale Isola di Pasqua, altra rispetto a Rapa Nui, dove gli enormi Moai, orientati tutti verso un’unica direzione, sanno i segreti sconosciuti al mondo e a sera li raccontano sottovoce a chi, come Visalli, ha cuore ed orecchi per udirli.
Firenze, marzo 2011