Architettura dello spirito, volatilità della materia

di

Valeria Arnaldi – ( 2013 )

 

Ancora, prima di partire

E volgere lo sguardo innanzi

Solingo le mie mani levo

Verso di Te, o mio rifugio,

A cui nell’intimo del cuore

Altari fiero consacrai

Chè in ogni tempo

La voce tua mi chiami ancora.

Segnato sopra questi altari

Risplende il motto “Al Dio ignoto”.

Conoscerti voglio, o Ignoto,

Tu, che mi penetri nell’anima

E mi percorri come un nembo,

Inafferrabile congiunto!

Conoscerti voglio e servirti!

 

(F. W. Nietzsche)

 

Macchie di colore alle pareti come appunti di una filosofia in divenire, che ogni giorno vengono composti in modo differente a creare alternanze e giochi di contrasto. Nuovi spunti di pensiero. Tagli di luce rubata, esaltata e moltiplicata che investono le superfici, creando sospensioni e interferenze, puntatori naturali di realtà non percepite. Silenzio. In questo ambiente di luce e calore, prima ancora che colore nella sua comune accezione, si muove Mondrian quando crea. Così ha voluto costruire il suo studio, edificando una sorta di rifugio dalle dimensioni indefinite, dove lasciar correre l’ispirazione e i sentimenti per nutrirla. Così ha costruito la sua opera-museo, cui la gente accorre per piacere, agio, perfino moda, senza la consapevolezza di essere parte di un esperimento sensoriale. E musa.

È il movimento a sedurre l’artista. Da osservare, ripensare, costruire, mai determinare. Movimento come frutto di intelligenza o istinto, del cosmo o della comunità. Mai fine a se stesso ma come prova di una sotterranea armonia, che è fondamenta della vita, non altrimenti percepibile. D’altronde Mondrian ha un’anima musicale, che si esplicita in prima battuta nei passi che non riesce a trattenere sulle note jazz e nelle sue notti “agitate”, dove l’assoluto, ricostruito o ipotizzato, cede il passo all’irruenza – e frenesia – della vita. In equilibrio tra pulsioni differenti, il rigore del giorno e l’eccitazione della sera, l’ambizione alla “cella” creativa e la corsa tra locali e ballerine, Mondrian cerca di fermare l’esistenza, non per contemplarla, tantomeno per riprodurla, ma per sezionarla e scoprirne meccanismi e regole. L’ispirazione dunque è nella mobile visione proprio perché la tensione è all’eternità immobile. Non è l’estetica del rigore a guidare le sue astrazioni pittoriche, ma la volontà, anche di potenza, come strumento per approdare all’assoluto, concetto univoco di verità che ammette l’opinione solo come fase della sua stessa evoluzione. E l’assoluto per Mondrian non è caos, tutt’altro, è armonia come denominatore filosofico e artistico dell’esistenza. Ed armonia perfetta, abile a creare vita, nelle sue diverse forme.

Armonia di natura e armonia di ingegno, armonia di un caos da non specificare oltre, che è creazione pura, e armonia lucida e di intelletto che, invece, è pura costruzione. La sua sfida non è nel mercato, il suo pubblico non è l’osservatore. Il traguardo è l’assoluto, il palco è la vita, il sipario lo sguardo interiore, capace di andare oltre il noto in una confusione di tempo e spazio che è l’unica eternità umanamente ipotizzabile. Costruibile. Questo vuole Mondrian: costruire l’armonia perfetta, assoluta, eterna. Riga su riga. È la sua missione, il suo manifesto. Perfino, la sua ossessione, da quando, nel 1911, ha visto ad Amsterdam i suoi lavori esposti accanto a quelli di Picasso, Cezanne, Braque, ed ha percepito, nell’atto, la trasformazione e trasfigurazione del cosmo. Per quella folgorazione, Mondrian si è convertito all’astratto, rinnegando le sue basi ma soprattutto la notorietà acquisita. Il desiderio, l’unico possibile, è raggiungere la verità dell’arte e nell’arte, scavare la forma e superarla per giungere alla sua essenza e alle radici stesse del vivere, ridotto alla semplicità, e forse sì anche al rigore, ma in tutta la sua magia, di linee e colori.

La tela non è supporto ma alfabeto, la forma non è soggetto ma metafora, l’ordine non è costrizione ma respiro. Così le rette che si incontrano a farsi protagoniste dei suoi lavori non sono “linee” ma battaglie di sentimenti, da un lato, che precipitano pesanti nel senza-fondo dell’animo, e di energie, dall’altro, che veloci scalano vette di entusiasmo e delirio, costringendo Icaro a guardarsi nello specchio per scoprirsi Prometeo. E, purtroppo, viceversa. Così l’ellittica ma evidente tridimensionalità non è semplice spessore ma profondità dell’indagine intellettuale, pensiero che affonda la lama della lucidità nelle carni dell’intuito per approdare alla radice del vissuto. Percepito, compreso e superato. Così il colore non è solo sensazione e invenzione, ma ora pausa di abbandono, stasi dalla frenesia del palpito creativo che impone all’immaginario un bagno di coscienza, ora invece onda e direttrice di eternità e ritmo.

È l’urgenza dell’Essere ad essere ritratta, la stessa urgenza che è pure motore della ricerca. L’io non lo seduce con la trappola dell’autoaffermazione ma lo guida nel reticolo di una coscienza ampia che è linfa del cosmo, senza altra distinzione di identità dalla visione. Mondrian è un visionario e non ha timore di esserlo. Così come non ha paura di rinnegarsi, se gli occorre per allargare l’orizzonte di coscienza e conquista.

Obiettivo, celebrare la capacità di pensiero. L’uomo mondriano pensa e ripensa il suo orizzonte, nell’illusione di poterlo determinare o addirittura inventare in una battaglia tra Genio e Natura per la conquista della Bellezza, concetto classico e ambizione moderna, che nei lavori dell’artista si manifesta come architettura dello spirito, dunque monumento di volatile materia.

“Credo sia possibile – scrive – che, attraverso linee orizzontali e verticali costruite con coscienza, ma non con calcolo, guidate da un’alta intuizione, e portate all’armonia e al ritmo, queste forme basilari di bellezza, aiutate se necessario da altre linee o curve, possano divenire un’opera d’arte, così forte quanto vera”. Ecco i suoi reticoli di essenza ed esistenza, geometrie pulsanti e senza respiro, frutto di incontri e intrecci, di più, forse, di gomitoli dipanati di religione, scienza, filosofia, ideologia, coscienza della bellezza e suo sentimento. L’armonia è ambizione antica e prospettiva classica, ma anche desiderio del moderno che in essa ritrova le fondamenta di quella volontà che fa l’uomo essere unico nell’universo. La bellezza è un concetto inventato, una figura perfino retorica, un canone che l’uomo si è autoimposto per sentirsi padrone di qualcosa e di una qualsivoglia forma di evoluzione, interamente controllabile. È aspirazione immutata nei secoli ma concetto profondamente mutevole. Mondrian lo sa e non se ne cura. La bellezza non è nella tela che è invece il percorso che alla bellezza deve portare, tracciato di un viaggio che non può per natura giungere a destinazione se non con la morte e l’assoluta certezza di non poter vedere oltre. L’estetica dell’uomo non è gusto puramente inteso, ma architettura modulabile, composta di mattoni di tempo e comune sentire, di imperativo e regola, di personale e collettivo. Per essere passibile dell’evoluzione di cui è testimone, però, l’architettura di bellezza deve conoscere la levità che è possibilità di costante mutamento. Deve farsi tratto e non atto, metafisica, mai fisica.

L’emozione dell’architettura di Mondrian non è nella pietra ma nella carne e nelle sue pulsioni. Giorno e notte si fondono nell’incontro di due rette, la percezione scalda la proiezione, l’orizzontale si fa donna e il verticale uomo, perché da nodi impercettibili del loro contatto emerga dirompente la vertigine. Anche del colore. L’armonia si fa figlia della battaglia che, lance in resta, vede forma e materia fronteggiarsi per scoprire che perfino filosofia e arte, le “altezze” dell’uomo, sono solo bugie che il dio regala agli esseri umani per dare loro il coraggio di affrontare la vita e con essa la morte. È questo “sistema” decomposto e poi ricomposto il canto di Mondrian, la sua città invisibile fatta di scultoree illusioni su carta. Verità profonde appoggiate in superficie.

Da questo universo immaginifico, entusiasta ma consapevolmente drammatico che sembra omaggiare la morte come unica vera prova dell’esistenza di una vita che non sia sogno, prende le mosse la ricerca di Francesco Visalli all’interno delle opere di Mondrian. “Inside Mondriaan” è un lavoro artistico quasi psicanalitico che parte dall’armonia raggiunta per ricercare il caos che l’ha generata. La biografia dice dell’artista, parlando poco dell’uomo, ma è l’uomo che ha preso i pennelli per trasformarsi in creatore, dunque è l’uomo che alle tele ha affidato il suo tracciato evolutivo. Il tradizionale triangolo dell’ispirazione – musa, opera, autore – diventa qui retta ed elemento di un più grande reticolo, che guida all’armonia o al suo motore, che in questo caso è Mondrian stesso. Non il visionario, non ancora almeno, ma il rivoluzionario latente, l’inconsapevole testimone della sua stessa mutazione, il manifestante senza – ancora – manifesto. È la battaglia tra Mondrian e Mondriaan ad affascinare Visalli che per leggere l’uomo sceglie l’alfabeto dell’artista. Il risultato è un incontro di affinità e dissonanze. Così l’armonia perfetta diventa urgenza anche per Visalli, che la contempla per poi cercare di annullarla, risalendo alla sua radice. Il viaggio nella tela, per ammissione stessa dell’artista, diventa prima stimolo, poi fermento, infine “gabbia” dalla quale non si esce se non riannodando il gomitolo sciolto, trasformato in prigione dell’unica retta di fatto senza capo né coda. Non c’è modo di uscire da quell’Inside che moltiplica le facce di Mondrian in un infinito gioco di riflessioni e rifrazioni.

L’urgenza creativa diventa dunque il motore comune agli artisti seppure per percorsi antitetici. Laddove Mondrian cerca l’anima nuda, Visalli sovrappone barocchismi a rivestirla, senza imporre gesti ma solo seguendo le stesse mani che l’hanno denudata. È la poetica dell’à rebours, la proiezione puntata alle spalle a fare lungimiranza del senno di poi. Quell’ardua sentenza dei posteri che non è giudizio ma esplorazione. Di nuovo, riflessione. Mondrian concepisce le opere come bidimensionali architetture per togliere ogni patina di concretezza alla purezza del concetto, Visalli si immerge nelle profondità del pensiero per restituire all’idea il suo spessore e trasformarla in quel monumento che Mondrian teorizzava. Il viaggio è esso stesso architettura. L’armonia è fatta di misure, proiezioni, dilatazioni, trasfigurazioni. E Visalli misura, proietta, dilata, trasfigura. Sono dimensioni che si ampliano, pur rispettando le proporzioni dello sguardo, colori ribaltati sui loro opposti, ideali perni che ruotano rette a farne vortici per dare corpo alla vibrazione che le ha composte in ordine. L’indagine aggiunge dove è stato tolto. Utilizza la materia, paradosso, per evidenziare l’anima.

Il processo è quello di un vero e proprio studio, che poi diventa opera dell’opera, di fatto altro dal suo stesso motore. Il primo passo è quello di distanziare gli elementi, utilizzando i piani di colore per ricavare la “dimensione” dello spessore. La “pianta” diventa così architettura, mostrando subito la sua tridimensionalità. Quando le opere sono ribaltate a farsi specchio di se stesse, torna il gioco di diffrazioni e interferenze che ha nello specchio una delle muse di Mondrian, interessato a guardare la forma nelle sue infinite facce e sfaccettature. Perfino ingannevoli, laddove il senso, con l’errore insito nella sua connaturata imperfezione – è creato, non creatore – si regala lo “sbaglio” della percezione creativa, originale ed unica. Il passaggio successivo non può che essere quello del colore, indagato nella sua vitalità. Non è macchia, né fondo, ma pulsione e battito, tensione appunto, che determina lo spazio sulla base del suo ritmo. È la frequenza, intesa come vibrazione a conquistare prima Mondrian, e poi nel frutto delle sue analisi, Visalli. Il colore diventa tempo, anche di percezione, ma soprattutto di espressione, e in questo percorso intimo nell’opera e nell’operazione di Mondrian viene sezionato per il suo essere emozione. I colori di Mondrian sono quelli primari, non per fisica o calcolo, ma perché primarie sono le emozioni ed azioni che rappresentano, tra passione, calma e riflessione. I tre cardini della conquista di Mondrian che Visalli cancella per risalire al determinante. Se ogni tonalità non è che errore del senso, allora l’unica verità mondrianamente concepibile è in realtà il grigio, tinta fisica del mondo, che il Mondrian cacciatore di verità ha però deciso di rinnegare, rifiutando il predominio delle scienza sull’arte in nome di una presunta obiettività condivisibile, per esaltare invece il Genio come unica ambizione condivisa.

Se il colore dunque è acquisito per volontà e selezionato per ambizione, cosa determina l’intima tavolozza dell’artista? Annullati i blu, i gialli e i rossi dell’astrazione nota e rifiutata pure la scala dei grigi, così concreta da sembrare bugia, Visalli torna agli specchi dell’indagine classica e a quelli dello studio dell’artista per cercare il pantone primitivo. L’inversione regala nuove emozioni, non semplici tinte quindi, al lavoro: arancio, verde e viola sono le tinte secondarie, le opposizioni dello Spettro, le costruzioni dell’uomo. Da quelle rifugge Mondrian per cercare la perfezione, perché invenzioni accessorie di vite accessorie. A quelle torna Visalli nel suo viaggio a ritroso per ricercare la prigione da cui l’artista tentava di liberarsi.

A trasformarsi dunque ora non può che essere la gabbia. Via le rette, largo al caos, la forma si contorce, ruotando su se stessa per farsi vortice. La distorsione moltiplica gli sguardi ed i guardati. Lo stesso oggetto diventa maschera di sé, ma nella serie di ruote e giravolte, mostra la sua coda di pavone fino al disorientamento. Prima dell’armonia perfetta, dunque, l’uomo non è teso all’evoluzione ma imprigionato nell’involuzione, chiuso in se stesso e in se stesso contorto. È l’agonia spirituale e creativa di chi non ha ancora preso consapevolezza del peso che la volontà ha sull’orizzonte. Se così non fosse, se si accettasse il determinismo del piano vitale, allora la puntualità e puntualizzazione dello sguardo umano perderebbe di centralità in una alternanza data di vuoti e pieni, intesa come semplice casualità materica. Se invece la volontà è categoria data per assunta allora la penetrazione diventa imperativo categorico e requisito di comprensione, in quanto primo e incontestabile requisito di partecipazione.

L’armonia perfetta esiste solo se contempla l’uomo, come parte del tutto. L’osservatore esterno è l’artista che accetta il sacrificio dell’esclusione per poter avere il privilegio della coscienza. Non è l’esaltazione del ruolo creativo, come potere trascendente, ma la possibilità della scelta, in questo caso come dovere immanente. Gli opposti si legano dunque, come estremi di una comune parabola, impossibili da separare, pendant di un sistema binario, ma soprattutto catena di un gioco di specchi, in cui chi guarda cosa non è più dato sapere. Ecco la perfezione ed ecco l’armonia viste da differenti fronti, tra fusione e confusione. Scarnificato, l’universo si rivela vibrazione, energia di illusoria forma.

L’arte si sposa con la filosofia, creando una macchina che, “tecnica”, diventa invece monumento dell’anima profonda, quel nucleo dello spirito che è reazione pura e pura passione. Dall’architettura del tratto si passa qui finalmente alla costruzione dell’atto. Se la tensione è alla dimensione unica la propensione non può che essere alla moltiplicazione sensoriale. L’architettura bidimensionale delle tele di Mondrian si fa tridimensionale nella pittura materica di Visalli, in un comune riconoscimento dello spessore come concetto, prima di essere distanza. L’umano è così umano da sfiorare il divino. Il resto è partita a scacchi tra epoche, percezioni e costumi, di certo volontà. La vittoria è all’urgenza che si manifesta in tutta la sua pressione nel momento stesso in cui si impone all’attenzione togliendo fiato al corpo per dare nuovo respiro ai pensieri. Luce, calore e silenzio tornano a “sedare” il corpo stanco dell’uomo provato dall’assordante consapevolezza del dono dell’Arte. E del suo immaginifico pensiero.

Nell’indagine di Visalli, dunque, la ricerca su Mondrian diventa in realtà anche disvelamento autobiografico del suo duplice percorso di espressione, oltre che formazione, architetto e artista, in una “soluzione” o sublimazione del dibattito psicanalitico tra Freud e Lacan. Se sia la psicanalisi ad analizzare l’arte come manifestazione inconscia dell’intimo pensiero o sia l’arte a precorrere la psicanalisi favorendo dunque il suo sviluppo, è problema superato. Così come il conflitto tra Freud e Jung sull’oggetto dell’indagine, se sia da analizzare l’uomo nell’opera o l’opera in se stessa. Qui l’arte analizza l’arte ed è soggetto che guarda, oggetto che è guardato, strumento di indagine e riflessione, “verbo” e silenzio, dunque conscio e inconscio, in un medesimo piano di studio che è in realtà, più di tutto e oltre tutto, esigenza vitale e perfino fisica, tensione muscolare, che rimanda direttamente all’antica ispirazione, come respiro del Sovrannaturale, prima sacro, poi di laica concezione.

Ad essere oltre la Natura qui sembra solo l’Idea. Così, in un ribaltamento delle parti, l’uomo diventa più del dio perché ha saputo pensarlo e l’artista più dell’uomo perché ha saputo, forse anche solo ammettere di averlo inventato. La poetica visione è più del monumento che è suo frutto. Il reticolo mondriano descrive l’architettura dell’anima come paesaggio di pensiero e l’architettura dell’anima è oggetto e teatro della ricerca di Visalli, ben prima di questa indagine. La vera “deità” è nel non percepire i limiti della materia, quale che sia la fonte, comunque fieri e consapevoli padroni dell’immortalità dell’invenzione. L’osservatore contempla, intuisce il vero nell’immagine e se lo riconosce lo accetta, di fatto confortando così il credo dell’artista. L’arte sublima e l’arte incita, l’arte dialoga e l’arte mette a tacere. L’arte tende all’armonia, per raggiungerla o negarla, per consacrarla ad assoluto o dissacrarla. L’Inside firmato da Visalli va oltre ricordando come l’unicità di uno sguardo possa essere motore di un’intera epoca e perfino dei secoli a venire. C’è un sottotraccia armonico che guida il mondo alla scoperta di se stesso e passa attraverso il “sogno” dell’artista.