Testo Critico di CAROLINA LIO sulla Pittura di Visalli
2015
L’arte è l’affermazione dei valori di questo mondo. E’ azione, in quanto non permette all’interrogativo di girare in tondo. Non è risposta – non esiste risposta alle domande che non definiscono i propri limiti – e tuttavia l’arte si presenta come modo di soddisfare le esigenze della durata. L’arte imita la vita, l’accompagna e, rovesciandola come un guanto, le dà un contorno valido. E’ l’atto stesso del pensare, che si trasforma sotto l’occhio e la mano in un oggetto di necessità superiore. E’ coscienza sul piano in cui vivere e agire sono le parole vive di un’attualità in continuo superamento.
Tristan Tzara
Esiste tutto un filone dell’arte contemporanea in cui la precisione pittorica è considerata un surplus, se non addirittura un’accezione negativa, che leva forza all’intenzione più impulsiva dietro l’opera e che potrebbe offuscarla. In un certo senso è un modo nuovo di fare una pittura naive e per quanto alcuni di questi artisti non si ritroverebbero affatto in questo aggettivo, la mia è una nota positiva per identificare in loro quell’istinto selvatico e quella genuinità schietta che non possono appartenere a chi fa troppi virtuosismi, a chi è troppo tecnico. Potrebbero sembrare artisti pop, e vengono ricondotti a questo filone spesso e volentieri. Lo accettano. Ma mi sembra riduttivo ricondurre il senso di una pittura elementare, che concentra i volumi e vuole essere immediata, alle dinamiche del consumo di massa, come era stato per Andy Warhol. Questi artisti, infatti, non vogliono inseguire la velocità dei nostri giorni e dei nostri consumi, piuttosto tutto il contrario: trovare nella semplicità del simbolo e nell’iconografia basilare un ritorno alla sensazione sensibile, all’autenticità, a quella semplicità non sofisticata – e quindi pura – dell’essenza umana. A che artisti mi sto riferendo? All’inglese Gary Hume, per esempio, all’ironico George Condo, ai lavori a inchiostro e acquarello di Marcel Dzama, ai ritratti spontanei di Alice Neel. Ma in particolare mi viene in mente il cecoslovacco Jan Knap, l’artista teologo che riproponeva in chiave semplificata e un po’ infantilistica l’arte sacra dei secoli passati per parlare della parte divina all’interno di ogni uomo. E poi ancora Donald Baechler che usa le immagini di un grande archivio personale lavorandoci sopra in maniera estemporanea e primitiva, sovversiva e anti-retorica.
Nei lavori pittorici di Francesco Visalli, invece, vi è una semplicità composta, ordinata ma frammentata. Le figure sono definite come l’incontro di piccoli pezzetti di colore ognuno dei quali mantiene la propria identità. Non si mescolano quasi mai l’uno all’altro e ogni frammento vive del proprio colore e delle proprie sfumature in una indipendenza che viene difesa con orgoglio. Questa è sottolineata da una barriera di vuoto, una linea di bianco che delimita i vari perimetri creando, da un lato, il distacco l’uno dall’altro dei vari tasselli e, dall’altro, la colla che li tiene elasticamente uniti e che forma l’insieme della composizione e della figura. Ovviamente l’effetto finale è quello di una composizione più che di un’unica scena, un insieme su cui è necessario focalizzarsi per capire quali elementi compongono più di altri la stessa famiglia, quali appartengono allo stesso soggetto, quali sottendono a uno sfondo che si impone con la stessa determinazione delle figure. Il tutto risulta pieno. Soffre – o gode – di un horror vacui che si deve scongiurare con ogni soluzione, piuttosto colmando gli spazi con un nero galattico, da spazio profondo e stellare.
Come in un mosaico non possono mancare delle tessere anche dove il racconto si interrompe, così nei quadri di Visalli, insomma, esiste lo stesso principio di una superficie che deve contenere dei tasselli, delle cromie, dei volumi in ogni sua parte, in un equilibrio che non può permettersi punti di rottura e di interruzione. L’armonia totale deriva dalla totalità dell’insieme e i piani prospettici sono sacrificati in quanto inutili. La forza dei suoi dipinti non sta, infatti, nella capacità di apparire realistici, quanto nella definizione di un segno duro, netto, geometrico, ritmato, scandito che irrompa nell’occhio dello spettatore e da lì perfori la retina con spigoli acuti creati dallo stridere delle linee e dai contrasti cromatici.
Scriveva il già citato Jan Knapp: “Non amo sporcare i colori. I colori sono l’immagine della personalità. Sono un mistero, sono come persone che vanno rispettate nella loro identità”. Anche per questo altro artista il colore deve essere autonomo e indipendente, non mescolato con altri e non semplicemente usato per dare corpo alla figura. Ha sua sua “personalità”. Vuol dire che ognuno dei cromatismi usati nella sua pittura (e in quella di altri pittori contemporanei tra cui lo stesso Visalli) ha un suo senso specifico, una sua caratterizzazione, porta un valore, un simbolo, un senso intrinseco che non può essere mediato o diluito.
In fondo era questa la conclusione a cui era arrivato anche Dubuffet, le cui opere più famose erano concepite come agglomerati di forme irregolari delineate tutte da una linea nera e occupate da un solo colore per volta (compreso il bianco). L’artista francese era un rivoluzionario autentico che con il suo lavoro si pose lo scopo di minare la cultura passiva e istituzionalizzata del suo tempo, smantellando l’estetica tradizionale, abbattendo pilastri, facendo esplodere le certezze accademiche. E vi riuscì. Egli, che si dichiarava “felice di essere un uomo comune”, cercò di abbattere la posizione privilegiata di cui la figura dell’artista del tempo si auto-investiva, e volle piuttosto recuperare il gusto di un senso primitivo dell’arte attraverso quella che viene chiamata “Art Brut”. Scrive Lorenza Trucchi che in questa arte “è impossibile distinguere il confine tra realtà e immaginazione, conscio e inconscio, fisico e psichico”. L’Art Brut è, infatti, inspirata alle creatività dei malati di mente, recuperando un senso basico e selvaggio dell’arte in cui le energie dell’uomo entrano in gioco senza la mediazione di un intelletto viziato. Le sue opere seguirono poi da base per un’ulteriore semplificazione: la stilizzazione che ne fece Keith Haring. Haring, come Dubuffet prima di lui e come Visalli oggi, ripudiava i tratti della pittura classica e la prospettiva, vista come una mera illusione di profondità.
Questi artisti non vogliono, infatti, creare nelle loro opere un’illusione ottica, una “finestra aperta sulla realtà” e una “cartografia”, come li definisce per negazione Renato Barilli. Vogliono, invece, far riemergere la figura al livello della tela, dando dignità al supporto che usano senza doverlo mascherare con un sistema geometrico, una finzione, senza nascondersi dietro un espediente. Del resto anche Matisse, Klee e Mirò hanno ridotto la figura a sagome finanche estreme nella loro semplicità, cercando una chiave di lettura che fosse elementare e che entrasse in contrasto con le idee precedenti in cui una pittura “ben fatta” doveva riprendere la varietà di sfumature, di brillantezze, di ombre, di armonie e contrasti dei colori così come avviene in natura.
Il fatto che questi canoni classici decadino, non vuol comunque dire che l’opera non abbia il suo bilanciamento e la sua armonia. Tutt’altro. Come scrive Mirò a proposito dei suoi quadri, in essi “c’è una specie di circolazione sanguigna. Basta che una forma si sposti, e la circolazione si blocca; l’equilibrio è infranto”. Mentre Matisse era convinto – a ragione – che forme e colori possedessero un contenuto espressivo proprio e indipendente dal modello naturale. Picasso stesso, che cercò con il cubismo di rendere la pittura tridimensionale, non smise mai di compiacersi di fare anche lavori grafici tracciati da una linea continua ininterrotta o interrotta quasi mai.
Se fin qui, comunque, si è parlato di stile e di scelte tecniche, non meno importanza bisogna dare ai soggetti e alle narratività espresse dalla pittura di Visalli. Al contrario di molti degli artisti citati sopra, lui non cerca l’astrazione. Le sue sono forme geometriche, è vero, ma riconducono a delle situazioni descrivibili e narrative, a soggetti riconoscibili nonostante spesso distorti. Possiamo dire che si tratta di quadri surreali perché non hanno alcuna necessità ed esigenza di descrivere qualcosa di oggettivo, né nelle proporzioni né nelle scene. Queste sono, infatti, oniriche, spirituali, istintuali, inconscie, estremamente simboliche e si srotolano come racconti da leggere. La realtà di per se stessa non gli interessa, ma gli interessa il suo risvolto, il suo lato al negativo, l’inversione che rivela quella parte nascosta più intima. A lui si adatta perfettamente la frase di Tristan Tzara usata in apertura di questo testo: “L’arte imita la vita, l’accompagna e, rovesciandola come un guanto, le dà un contorno valido”. Di fatto, il suo quadro è un guanto rovesciato, le linee bianche sono le cuciture di un tessuto umano e mentale che rivelano il lato interno delle cose, quello a contatto con la pelle.
Tutta la pittura surrealista, in fondo, non rappresentava scene irrealistiche per puro amore della provocazione e del paradosso. Al contrario cercava di studiare e di rappresentare una realtà più profonda, più reale del reale, nello strato ulteriore rispetto alla superficie. Michele Draguet affermava che “la natura che la società borghese non è riuscita a soffocare completamente, ci offre lo stato di sogno, che dà al nostro corpo e al nostro spirito la libertà di cui essi hanno un bisogno imperativo”. Come non vedere nelle opere di Francesco Visalli un ammutinamento allo spirito borghese, una sovversione delle regole sociali, un enigma poetico e misterioso che allo stesso tempo protesta vivacemente? A metà tra misticismo e fantascienza, i suoi scenari sembrano un’apocalisse romantica e passionale. Animali dall’apparenza metallica di muovono su territori inariditi, di una vegetazione bionica e di una rocciosità desolata. Blocchi di massi stanno sospesi come se si fossero staccati dalla terra in seguito a un’esplosione. Creature romantiche che si amano e si cercano, si sono perse dentro i frammenti di un paesaggio sconvolto dalla lacerazione.
Nel titolo di una delle sue opere che preferisco, tutto questo può essere riassunto in “Caos cosmico”. In questo dipinto c’è un arroccamento di frammenti di mondo che si intervallano con una natura in difensiva e una vista di altri corpi celesti così vicini che suggeriscono una deriva spaziale e lo sconvolgimento di qualsiasi ordine precostituito.
In un’altra opera troviamo una allungata e scossa, esile e sciatta Madame Chisciotte, versione femminile del personaggio di Cervantes, già in partenza sconfitta mentre guarda in lontananza dei mulini a vento senza energia, che sembrano sciogliersi verso il basso, perdersi e lasciarsi consumare.
Anche la figura de “La sposa mancata” presenta le stesse caratteristiche, ed infatti descrive una donna in attesa di un amore che non arriva mai, e nell’attesa si trova ormai bloccata da rovi che le sono cresciuti attorno e che stanno per pungerla.
Le è sorella “La signora di Avalon”, passionale eroina in abito da sera rosso immersa nei ghiacci, che romanticamente si oppone alla propria solitudine e guarda in direzione di una stella lontana.
Infine, c’è la debolezza delle figure di “21 grammi”, titolo che richiama al famoso peso che si crede abbia l’anima e che, in una composizione simile a quella di un bouquet di fiori urlanti, allude soprattutto alla violenza sulle donne e al grido impotente di chi è costretto a subire.
E’ ora necessario notare come per il proprio “Autoritratto assente” e per i quadri più passionali o addirittura esplicitamente sessuali, Visalli utilizzi invece un’altra tecnica. La sua figura non è un’anima che si scioglie in una sofferenza diafana, ma prende corporeità in un tessuto di blocchi cuciti dalla consueta linea bianca. L’effetto è quello di una pelle a schegge, di una corazza, ma si tratta in realtà di una rappresentazione di se stesso per cuciture, punti di sutura, cicatrici.
Il corpo, segnato da un’esperienza dietro l’altra, è diventato un assemblamento di ferite che da un lato lo smembrano, da un lato lo tengono unito, costituendo la persona, formandola, lacerandola e allo stesso tempo difendendola attraverso una forma di abitudine al rumore dei colpi. Il dolore, la sconfitta, il senso di un distacco con il mondo e di un naufragio lento delle varie parti di se stesso, trovano in questi casi una componente meno fantascientifica che in altri dipinti, e abbassano il livello metaforico non negando la spiritualità dell’esistenza ma unendola inevitabilmente a una vulnerabilità estrema del corpo.
Anche nei suoi lavori più spirituali, del resto, la metafora del divino passa dall’espressione di una simil corporeità. E’ il caso dell’unico quadro veramente religioso realizzato finora: “Infinita storia d’amore”. Qui, la figura del Cristo è ottenuta dall’accostarsi tra loro di rami, nell’unico pezzo di tela lasciato volutamente intrattato che si sia mai trovato nelle sue opere. Nello stesso quadro, un inferno vuoto scende per scalini infuocati mentre verso l’alto si aprono i sette cieli che portano a una visione del Paradiso presenziato da Cristo e i suoi Apostoli. La scena è osservata da una diafana Maria accanto a una chiesa spaccata e in disfacimento. Il lavoro rappresenta non solo il forte senso mistico di Visalli, ma sopratutto un senso di crisi religiosa, il fallimento di una perfezione morale incarnato dall’omino che, inserito nella fascia destra di figure rappresentanti le dodici tribù di Israele, guarda da un lato, unico incolore, estraneo eppure incluso, ribelle eppure salvato.
Il senso di salvezza nonostante il disastro, l’essere frammentati eppure costituiti dall’unione dei pezzi, il pieno ossessivo da cui si intravedono distese di universo in cui lanciarsi in un vuoto a perdere, sono tutti elementi in forte contrasto tra loro che determinano un artista e una personalità che si definisce per contrapposizione a se stesso, per scontro di sfaccettature, per conflitto tra le parti. Un’arte che non risparmia colpi prima di tutto a chi la fa e che cerca di dare all’esterno, a chi guarda, una situazione di equilibrio dinamico, una pace che scaturisce da una guerra, un senso di solitudine che si estrapola dalla folla.